Il verbo inglese “recovery” significa riaversi, riprendersi, recuperarsi. E’ un processo o un percorso che si compie. Non vi è nessuna parola nel vocabolario italiano che abbracci in un lampo l’ampiezza dei significati possibili del termine inglese. In italiano “guarigione” rimanda a un concetto forse ancora troppo medico, molto vicino a quello di “remissione”: attenuazione o scomparsa dei sintomi di una malattia. Benché la guarigione rappresenti la più alta aspirazione di coloro che soffrono di questa malattia, essa sembra fuorviante, anche perché di fatto non è dimostrata alcuna lesione biologica o alterazione anatomica. Guarigione richiama alla mente soprattutto un esito finale, un accadere biologico. Recovery, invece, non significa guarigione clinica bensì il viaggio compiuto da ciascuno nel costruirsi una vita al di là della malattia. Significa presa di coscienza di sé e dei propri problemi, soprattutto dei propri obiettivi di esistenza. Il tema dell’identità è centrale nel progetto di recovery: vuol dire riguadagnare il controllo su ciò che ti accade, e in senso più ampio sulla tua vita, migliorarne la qualità, vivere in modo più positivo. La recovery si compie solo in uno stato di godimento dei diritti e di risposta ai bisogni, cose possibili unicamente in una piena condizione di cittadinanza. Per questo la parola cittadinanza è intimamente legata alla recovery. Questo significa: diritto a una cura che non sia sanzione, diritto a un reddito, a una casa, a un lavoro, a una partecipazione attiva alla vita civile e sociale. Significa che nel processo di deistituzionalizzazione, avvenuto dalla legge Basaglia in poi, i pazienti, ma anche i familiari che se ne prendono cura, diventano soggetti di diritto, dotati di contrattualità, con la possibilità di espressione autonoma. Nel processo terapeutico le persone sono al centro, con i loro bisogni, aspettative e obiettivi: così si produce consenso alle cure, fiducia, collaborazione e coinvolgimento nei programmi individuali. Nel programma terapeutico improntato alla recovery sono importanti il sostegno spontaneo ad altri pazienti in crisi da parte di chi ha esperienza personale di disagio psichico, la presenza qualificata dei familiari come interlocutori, il coinvolgimento di tutti gli attori, medici, terapeuti, operatori. Oggi, purtroppo, anche nei Paesi a welfare avanzato come l’Italia, dove i diritti civili sono garantiti, l’inclusione delle persone con disturbo mentale ancora, di fatto, non c’è. Forte è ancora lo stigma, uno stigma che ricaccia in una zona d’ombra chi soffre di disagio psichico, condannando la persona e i suoi familiari all’esclusione sociale, alla vergogna per una malattia vissuta come una colpa. Deistituzionalizzazione, emancipazione, inclusione e cittadinanza sono invece le parole e le pratiche che devono essere legate alla recovery.
(Il testo è un libero adattamento dell’introduzione al libro di Izabel Marin e Silvia Bon “Guarire si può”ab 2012)
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