Gruppo di ricerca: "Conoscere per migliorare". Gruppo trasversale. Non istituzionale. Spontaneo. Nato dalla necessità di capire come affrontare la complessità della malattia mentale.
Ogni partecipante parte dalla sua esperienza personale, diretta o indiretta: diretta per averla sperimentata sulla propria pelle; indiretta per averla sperimentata attraverso persone assai prossime (genitori, figli, pazienti).
Ogni partecipante rappresenta una faccia di un poliedro dalle infinite sfaccettature che, nel suo insieme, rappresenta il disagio psichico. Ognuno contribuisce con il suo granello. Tutti hanno pari dignità indipendentemente dal loro ruolo. Tutti vanno ascoltati e non corretti. Non si può correggere un'esperienza soggettiva.
La malattia mentale, prima che pensieri, suscita emozioni. Chi non la conosce ne ha paura e se ne tiene lontano. Ha paura del contagio.
Le persone malate ci mettono in contatto con ciò che non è normale e il normale ci rassicura. È una realtà standard, monotona forse, ma tranquillizzante. Inconsciamente tutti sappiamo che l'anormale sonnecchia in ciascuno di noi e ciò ci inquieta.
La malattia mentale può manifestarsi gradualmente o fin dall'infanzia, ma spesso si manifesta all'improvviso, senza preavvisi.
“Non tiene più l'elastico”, diceva Gaber, “di colpo fuori e dentro lo schianto”.
Come psicoterapeuta ho visto spesso ragazzi brillanti improvvisamente incrinarsi e precipitare dentro il tunnel, sovente in conseguenza di uso di sostanze, che possono slatentizzare la malattia dormiente. Lo schianto può aspettarci dietro l'angolo, può travolgere ciascuno di noi.
Inconsciamente lo sappiamo tutti e ci fa paura.
Il malato psichico, specialmente gli psicotici, ci presentano una realtà deformata, dilatata, frammentata.
Le voci che sentono gli schizofrenici sono incomprensibili a chi non ne conosce la storia individuale, ma a chi la conosca rivelano la loro origine nella realtà e così fanno meno paura, permettono l'avvicinamento.
Sono pensieri ossessivi che prendono un aspetto magico, irrazionale, si gonfiano su se stessi, si dilatano, diventano altro, incorporano miti, figure religiose o carismatiche, archetipi, inglobando pezzi importanti della storia passata e presente dell'umanità.
Il gruppo, oltre che di ricerca, che i partecipanti ne siano coscienti o no, è un gruppo di mutuo aiuto.
La vita ne ha appassionato i componenti alla stessa materia: confrontarsi, lavorare insieme per andare avanti, per migliorare la conoscenza della malattia (e di conseguenza della psiche e, di conseguenza, di noi stessi) dà un senso alla sofferenza e al dolore pregressi, aprendo nel contempo al futuro.
Un dolore che dà adito a un progresso non è un dolore inutile, ha un senso. E la richiesta di senso è una delle maggiori necessità per l'uomo.
Ricercare insieme aiuta a rimarginare le ferite che l'esperienza dolorosa ha lasciato in quanti ne sono stati toccati.
Un gruppo siffatto non può che essere composto da persone che hanno accettato la malattia, hanno scelto di guardarla in faccia, l'hanno superata o la stanno superando. La prima reazione infatti è negarla, non volerla vedere, nasconderla come una vergogna.
Qui non sto pensando agli operatori sanitari (medici, infermieri, psicologi, educatori) che comunque per aver scelto questo campo di lavoro qualche crepa in sé debbono pur averla.
Il guaritore è ferito per definizione: come fa altrimenti a guarire ciò che non conosce? Non so più chi ha detto che un buon psicoterapeuta non è chi non ha avuto ferite ma chi ne ha avute molte ma non mortali. Ogni ferita è un'apertura che mette in comunicazione l'interno con l'esterno e apre nuove vie di comprensione.
Non sto dunque pensando agli operatori sanitari ma alle persone che hanno vissuto il disagio psichico sulla propria pelle o ai loro familiari.
In un primo momento ci si vergogna e, se la cosa riguarda un figlio, ci si sente in colpa. Cosa ho sbagliato? Dipende da me? Cosa non ho visto? Cosa non ho fatto? Naturalmente il panorama del disagio psichico è talmente vasto ed ha talmente tanti diversi gradi e sfumature che non si può generalizzare.
Prima dell'accettazione c'è la rabbia, il rifiuto, il non poterne parlare, la vergogna, l'autoesclusione, l'isolamento. La malattia mentale è un processo doloroso e trasformativo. Può essere fecondo. Certo non ci lascia uguali.
Conoscere per migliorare. Secondo me prima del conoscere, che ha una connotazione più intellettuale, c'è il comprendere. Prendere dentro di sé. Accettare. Senza questo passo non se ne esce. C'è la stagnazione, la confusione, la rabbia che annebbia il cervello. Ci si chiede: perché? Perché proprio a me o perché proprio a lui? Ci si sente sbagliati, falliti, imperfetti, sfortunati, ci si compiange, si mette la testa sotto la sabbia.
Quando si accetta la malattia e la si guarda in faccia ci si apre gradualmente agli altri e inizia la risalita. L'indicibile può essere detto e una cosa detta si chiarisce, diventa altro da te, puoi dialogare con essa, puoi confrontarti con gli altri. Conoscere è approfondire in una dimensione sociale non più individuale. Dall' isolamento alla condivisione. Dall'io al noi.
Condivido quasi tutto quanto espresso nel video.
Il monitoraggio dei farmaci e una cura cucita sull'individuo e non standardizzata, il che naturalmente non vuol dire non tener conto della ricerca farmacologica e dei protocolli esistenti. Troppi psichiatri sono semplici distributori di farmaci che imbrigliano i cervelli come una volta le cinghie legavano i corpi. I farmaci sono spesso necessari, questo va sempre tenuto presente, ma devono essere scalati appena possibile.
Ho avuto due anni di depressione abbastanza severa in seguito a eventi familiari molto dolorosi su cui i pensieri negativi hanno macinato ossessivamente.
Sembra che la depressione colpisca spesso persone con un alto ideale dell'io e tendenzialmente perfezioniste che non si perdonano per i propri reali o presunti errori e si autoflagellano.
Ebbene ho sperimentato che i farmaci prescrittimi da psichiatri diversi non avevano lo stesso effetto. Non tanto per la sostanza in sé quanto per la persona che avevo davanti. Lo psichiatra e psicoterapeuta che è stato risolutivo nel mio caso è uno con cui ho avuto solo due colloqui, ma da cui mi sono sentita capita e contenuta e che mi ha ispirato fiducia.
Fidarsi ed affidarsi è importantissimo. Se la persona non ti convince il tuo corpo fa resistenza e la cura non funziona.
Utilissimo è stato anche l'allontanamento per qualche mese dall'ambiente familiare, l'immersione in un Paese totalmente diverso che offriva continui stimoli nuovi che arrestavano i pensieri. Il tutto ha permesso di scalare gradualmente i farmaci fino a cessarne l'assunzione.
Non è facile definire che cosa fa scattare la fiducia. Le parole, lo sguardo, l'espressione del viso, l'età. Nel mio caso si trattava di una persona d'esperienza, una figura paterna e benevola, autorevole e accogliente.
Il disagio psichico lascia comunque sempre uno strascico, una particolare sensibilità a certi eventi. Come quando ti fratturi un osso e quando cambia il tempo si fa sentire. Diventi comunque capace di avvertire i campanelli d'allarme e di prender provvedimenti in tempo utile.
Conoscere e ammettere le proprie fragilità è comunque un passo avanti nella conoscenza di sé e degli altri, perché ogni conoscenza non può che partire da se stessi.
Recentemente ho letto un libro che definiva la depressione una piccola morte da cui risorgi non glorioso e pronto per ascendere al cielo, ma sicuramente più intero avendo integrato parti di te prima sconosciute o negate.
A proposito di farmaci bisognerebbe essere attenti agli effetti collaterali, compresi quelli estetici, niente affatto trascurabili. Ho visto bellissimi ragazzi e ragazze le cui fisionomie avevano perso le loro fattezze originarie e i cui corpi, gonfi ed appesantiti, erano diventati irriconoscibili.
Se al disagio psichico si accompagna una radicale trasformazione della propria immagine corporea la cosa non è affatto irrilevante, specie per gli adolescenti. Tanto più che è molto difficile tornare indietro. Non si tratta di futilità. Si tratta di un'immagine di sé totalmente altra e in cui non ci si riconosce e non si è riconosciuti.
Un altro punto che vorrei toccare è quello della privacy che erge muri tra genitori e figli, sicché questi si sentono esclusi dalla vita delle persone a loro più care. Portano il peso della situazione senza lamentarsi, ma non possono sopportare che un estraneo sappia della loro figlia o figlio più di quanto sappiano loro. Si sentono persone di serie B, messe da parte come inutili. Capisco benissimo.
Purtroppo spesso tra il primo manifestarsi del disagio psichico, la diagnosi e la presa in carico passa del tempo, un tempo in cui i genitori, più spesso la madre, si logorano in un rapporto uno a uno che diventa quasi simbiotico e come tutti i rapporti faticosi e troppo stretti genera tensioni, frustrazioni, ribellioni in entrambi i componenti della coppia. La cura consiste spesso nel separare la diade affinché ciascuno riprenda a respirare, ma è necessario che il genitore non si senta scaricato. Entrambi hanno sofferto, entrambi hanno bisogno di sostegno.
Secondo me dovrebbero essere presi in carico da due professionisti diversi, ma in contatto tra di loro, che possano fare da ponte fra i due senza rischiare di perdere la fiducia del paziente rivelando segreti che appartengono solo a lui.
Ultima considerazione: il marchio che si sente sulla pelle chi ha sofferto di disagio psichico: pesa e fa terra bruciata intorno a lui.
Ha ragione chi nel video dice che la cosa migliore sarebbe cambiare aria, iniziare una vita nuova altrove, dove nessuno ti conosce, dove puoi essere quello che sei diventato. E a proposito di questo diventare vorrei che la cura non si limitasse a normalizzare il comportamento del paziente.
Ho conosciuto persone che alla fine del percorso si sono irrigidite, forse difensivamente, perdendo o nascondendo quell'acuta sensibilità che era stata una concausa della malattia. Nascondono la loro intelligenza dietro un certo sarcasmo, che è un'aggressione mascherata, forse generata dalla rabbia e dalla frustrazione suscitate dalle innegabili difficoltà di reinserimento nella vita sociale e lavorativa, inserimento che dovrebbe essere adeguato alle potenzialità, spesso elevate, della persona e non un contentino dovuto alla pregressa malattia, che lascia sempre dietro di sé un alone di sospetto e di diffidenza.
Per questo alcuni pazienti, pur intelligenti e sensibili, frustrati dalle esperienze pregresse, invece di mobilitare le loro risorse interiori trovano più comodo accomodarsi nel vantaggio della malattia. Diventano malati di professione. Pretendono dagli altri attenzioni, privilegi e compassione mortificando in questo modo le loro parti sane. Rinunciano a lottare. Tendono a dipendere dagli altri.
Quando vengono ricoverati in repartino si vivono come un guercio fra i ciechi e si sentono a proprio agio: protetti ed accuditi. Ci stanno quasi bene. Sono empatici con le persone che soffrono, non con le persone che vivono una vita normale, fatta di alti e bassi come tutte le esistenze. Sono centrati su di sé e colpevolizzano chi delude le loro aspettative di accudimento ad oltranza.
Queste le mie riflessioni. Ora rilancio a voi la palla e aspetto di leggervi nuovamente.
Buon lavoro.
Laura Sanfilippo
Comments